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venerdì 2 febbraio 2024

 

Il CUI, il Codice Unico Identificativo, e la Commedia degli Errori


Milano, la città della moda, del design e... degli errori di identificazione! Sì, avete capito bene. Non uno, ma due incredibili errori in soli venti giorni. E tutto grazie al CUI, il Codice Univoco Identificativo.

 Il CUI, una stringa alfanumerica assegnata dai reparti scientifici delle forze dell’ordine al fotosegnalamento e alle impronte digitali di uno straniero, è stato creato per prevenire gli errori di identificazione o false generalità. Ma a quanto pare, a Milano, il CUI non ha dato risultati attendibili. Anzi, ha proprio fallito e fatto uno scambio di persone. Non una ma per ben due volte. Decisamente un po’ troppo per essere considerato attendibile.

 La prima vittima di questo incredibile errore è stato un povero uomo bangladese di 35 anni. Immaginatevi la scena: un giorno normale, stai andando al lavoro, e all'improvviso ti ritrovi in prigione. Perché? Perché hai lo stesso nome e la stessa data di nascita di un criminale accusato di rissa aggravata con un morto. Risultato: quattro mesi di ingiusta detenzione in carcere per un errore di identificazione.

 Ma non finisce qui. Dopo solo venti giorni, un altro uomo, questa volta un cinese di 53 anni, accusato di ricettazione di telefonini rubati è caduto nello stesso tragico errore di persona. Stesso nome, stessa data di nascita, stessa incredibile coincidenza. Questa volta, però, il CUI ha deciso di essere un po' più clemente: solo quattro giorni di carcere. Una vera e propria… Commedia degli errori giudiziari.

 Solo dopo i quattro mesi di detenzione, l’avvocato dell’uomo bangladese, osservando la foto presente sul fascicolo agli atti si è accorta che non era quella del suo assistito.

 Per l’uomo cinese, dopo quattro giorni di cella, è stato provvidenziale lo spirito investigativo di un agente penitenziario.

 E così, in meno di un mese, il CUI ha dimostrato che, nonostante la sua sofisticata tecnologia e le sue nobili intenzioni, può ancora fare degli errori. E sono errori imperdonabili quando di mezzo c'è la privazione della libertà personale e l'ingiusta detenzione!



Tags. #errorigiudiziari, #libertàpersonale


sabato 3 giugno 2023

Caso Palamara e la crisi di un sistema marcio.



IL CASO PALAMARA E LA CRISI DEL SISTEMA GIUSTIZIA :RIPARTIAMO DALL'ART.111 DELLA COSTITUZIONE

L’esplosione del caso Palamara ha provocato un terremoto con effetti devastanti  per l’intero ordine giudiziario. I fatti venuti alla luce pongono, in tutta la loro manifesta gravità, un “vulnus”che sta all’origine dei tanti mali che affliggono il sistema giudiziario italiano.

E’ utile ricordare quanto recita l’articolo 111 della: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Non puo’ apparire cosa del tutto irrilevante, il fatto che i nostri  Padri Costituenti abbiamo voluto utilizzare assieme all’aggettivo “imparziale” anche quello di “terzo”. Il motivo risiede nel voler esplicitare in maniera chiara e inequivocabile quali sono gli attori del processo: l’accusa, la difesa e il giudice che emette la sentenza. E dunque, alla luce della lettura dell’articolo della Carta Costituzionale, il giudice, per essere “terzo ed imparziale” non può avere niente a che fare né con l’accusa né con la difesa. Il cuore del problema è tutto qui: il giudice inquirente e quello giudicante devono essere cose separate.
Il quadro che emerge dalla famosa chat-Palamara fornisce una chiara ed amara rappresentazione di come funzionano le cose all’interno del sistema dei poteri della Magistratura. Le nomine del Csm, avvengono di fatto, gestite e concordate durante cene ed incontri conviviali tra giudici e Pm. Un metodo che nulla ha a che fare con giudizi i di merito, ma basato solo su logiche spartitorie e relazioni di potere molto simili a quelle di una ”loggia”.  Un sistema che ruota attorno al suo cuore pulsante che è il Csm, dominato da una maggioranza composta da giudici Pm.
Eppure, l’art 111 della Costituzione dice altro.

La terzietà, l’imparzialità, e dunque anche l’indipendenza del giudice, sono di fatto minate da un meccanismo che privilegia il ruolo e il potere dei Pm a discapito del giudice. 
La terzietà di un giudice viene, inevitabilmente compromessa  quando  deve rispondere della sua professionalità davanti a un Csm composto in maggioranza di Pm, se è iscritto alla stessa associazione di categoria del Pm e se fa parte della stessa corporazione cui appartiene anche il magistrato inquirente.
E per come oggi funzionano le cose, il giudice non solo non è terzo ma, assai spesso, non è neppure indipendente. L’assenza della separazione delle carriere colpisce al cuore l’indipendenza della magistratura giudicante che deve essere necessariamente indipendente. 

Il Presidente della Repubblica,nei giorni scorsi, ha invitato i giovani magistrati a: "Non ispirarsi alla logica corrente, a non cercare il potere e il consenso, ma ad essere fedeli solo alla Costituzione". E ha chiesto al Parlamento e al Governo di intervenire per riformare la giustizia e porre fine alla degenerazione del sistema.  Sabino Cassese, noto ed autorevole intellettuale, è giunto a denunciare l’illegalità nel quale versa il nostro sistema giudiziario del Paese: “ le Procure sono di fatto diventate un quarto potere, al quale il sistema giudiziario si è dovuto piegare”. Per “ritornare alla Costituzione” urge una riforma che metta fine alla pericolosa anomalia di un quarto potere incontrollabile.

La separazione delle carriere appare essere una proposta ragionevole per riformare radicalmente la giustizia e ricondurre nell’alveo della legalità il sistema.
Alla Camera esiste una legge di iniziativa popolare, sottoscritta tre anni fa da ben 74 mila cittadini italiani, che chiede la separazione delle carriere dei magistrati.
L’Aula della Camera dei Deputati è chiamata ha discuterne il 29 giugno.
Saprà la Politica far pesare il suo ruolo per riformare un sistema degenerato e fuori controllo?
Questo non lo sappiamo.
Possiamo di certo sperarlo.
Sappiamo cosa ne pensano Davigo e Travaglio….

venerdì 19 giugno 2020

LA GIUSTIZIA INGIUSTA


L’ARRESTO DI ENZO TORTORA: UN’INFAMIA E UN MONITO PER LA GIUSTIZIA ITALIANA.                           





Roma, Hotel Plaza 17 giugno del 1983. Sono circa le 4 del mattina quando alla porta della stanza dove riposa Enzo Tortora bussano alcuni  carabinieri del Reparto Operativo della Capitale. Lo svegliano, lo dichiarano in arresto e gli mettono le manette al polso. Il presentatore, ancora allibito e senza parole, viene invitato a seguire i militari in caserma. Tortora non riesce a comprendere  cosa stia accadendo. Prova a chiede ai carabinieri di cosa è accusato e riceve una risposta netta: " Lei è accusato di traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico". In pochi minuti la vita di un uomo viene stravolta ed inizia l’incubo e il calvario di una persona perbene. Proviamo a raccontarvi in breve quella storia che ha segnato uno dei periodi più brutti del sistema giudiziario italiano.

 di Michele Macelletti.


La notizia dell'arresto di Enzo Tortora viene accolta dall’opinione pubblica italiana come un fulmine a ciel sereno. L'uomo è uno dei volti più amati e popolari della Televisione italiana. E' il conduttore e creatore della seguitissima trasmissione della Rai Portobello,  seguita da ben 26 milioni di telespettatori. In quel momento Tortora, che aveva già presentato un Festival di Sanremo e condotto la seguitissima  La Domenica Sportiva, è il personaggio di spettacolo più noto e seguito dal pubblico televisivo. Le  immagini del suo arresto con le manette alle mani tra due carabinieri fanno scalpore. L’opinione pubblica ha sempre considerato Tortora un uomo perbene. Inizialmente i suoi collegi del mondo dello spettacolo, sembrano non volersi esprimere sulla clamorosa vicenda. In molti aspettano di conoscere i dettagli della incredibile storia che ha coinvolto il collega di lavoro o preferiscono pilatescamente non esprimersi pubblicamente. La voglia di saperne di piu’ sarà ben presto appagata dall’incessante lavoro di gossip svolto dai quotidiani, rotocalchi e dagli stessi telegiornali Rai, che con dovizia di particolari, ma spesso infamanti, ridisegnano agli occhi dell’'opinione pubblica italiana un'altro Enzo Tortora. Inoltre la quantità di nuovi pentiti e loro rivelazioni si susseguono ad ritmo sempre più incessante che per gli inquirenti non appare almeno sospetto. . al Il castello di accuse che appare sempre più schiacciante e impossibile da smontare. Eppure le cose che sembrano tali a volte non lo sono per niente.L’indagine che conduce all’arresto di Tortora avviene nel contesto di un blitz che coinvolge oltre 850 persone collegate alla Nuova Camorra Organizzata e viene presentata alla stampa come un colpo mortale inferto dalla Procura di Napoli alla criminalità partenopea. Il presentatore viene ammanettato in base alle accuse che gli vengono mosse da ben 19 pentiti. Non sono pochi. In questo nutrito nugolo di gentiluomini "dell'onorata società'",  si erge la figura di Pasquale Barra, detto ‘O animale”. Egli è un efferato omicida al soldo della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Il sopranome"'O animale" se lo conquista, per così dire, sul campo di lavoro allorchè uccide il boss della malavita milanese Francis Turatello. “O animale” accoltella Turatello nel carcere di Nuoro, e dopo averlo letteralmente sventrato, non contento del risultato,  completa l'opera  estraendone  gli organi interni e prendendo a morsi il cuore. Ecco dunque, in breve, il ritratto del principale accusatore a cui i magistrati napoletani dettero peso e credito. Si dirà, e furono in  tanti a crederlo, ma non era il solo pentito che faceva il nome di Tortora. Dunque, ci doveva pur essere qualcosa di vero. In effetti, oltre alle parole dei pluri pregiudicati, la prova materiale che inchioda l'accusato esiste.  Si tratta di un' agendina ritrovata nella casa di un noto camorrista napoletano, tal Giuseppe Puca, detto ‘o Giappone. Tra le pagine gli inquirenti trovano, scritto a penna e con grafia confusa, un numero di telefono e vicino  un nome: Tortora. Sembra una prova davvero schiacciante. Il problema è che sembra. Ma su questo punto torneremo in seguito. Fatto è,  che in base al rinvenimento di quel numero telefonico, il conduttore trascorrerà ben sette mesi e mezzo rinchiuso nel superaffollato carcere romano di Regina Coeli. Insieme a lui, in quella cella del 16 bis di pochi metri quadri, ci sono infatti altri sette detenuti. Nel frattempo, fuori da quella cella, si scatena lo sciacallaggio mediatico contro il mostro. Mamma Rai, a cui Enzo Tortora ha dedicato una vita, si distingue per essere  la  prima a trasmettere le immagini del conduttore in manette. Il montaggio di quel servizio giornalistico ha un sinistro sapore che rimanda a certa morbosità, quasi come di compiacimento per la fine di un uomo di successo. Questa sarà la cifra giornalistica comune ai dei tanti articoli che alimenteranno pagine e pagine di quotidiani e di riviste che beneficeranno di vendite record ad ogni nuovo scoop.  I rotocalchi di gossip pubblicano le foto della madre di Tortora mentre  prega per il figlio in chiesa. La poderosa macchina del fango entra in azione ed accende il ventilatore. I falsi scoop sono tanti: c’è chi assicura di averlo visto spacciare anche negli studi televisivi, chi parla di riciclaggio di denaro sporco, o addirittura di un’amicizia tra Tortora e quel Francis Turatello ucciso da Barra. A nulla serve la smentita della madre di Turatello, nell'immaginario collettivo Tortora  deve essere un “mostro”. Vi è persino chi sostiene di aver le prove che il presentatore sia stato affiliato alla Camorra attraverso il tradizionale rito del  taglio sul braccio. Ma a Tortora  nessuno mai chiese di mostrare il braccio, che di ferite ovviamente  non ne presentavaLa scoperta di come la stampa lo stava trattando fu per Tortora una sorpresa amarissima.  “Non mi parlare della Rai, della stampa, del giornalismo italiano. È merda pura. A parte pochissime eccezioni mi hanno crocifisso, linciato, sono iene. Sai, non esco a fare l’ora d’aria perché i tetti sono pieni di fotoreporters”. Così scrive in una lettera alla sua compagna Francesca Scopellitti. E in un’altra si sfoga: “Ho visto le foto di mia madre infamata (‘Gente’) persino nella cappella dove va a pregare per me. Sono ancora nel tunnel, sono diventato ‘il caso’, ‘il giallo’: tutto ciò che odio”.... Ed ancora sconfortato aggiunge: “Questo Paese non è più il mio. Il mio compito è uno: far sapere. E non gridare solo la mia innocenza: ma battermi perché queste inciviltà procedurali, questi processi che onorano, per paradosso, il fascismo, vengano a cessare. Perché un uomo sia rispettato, sentito, prima di essere ammanettato come un animale e gettato in carcere su delazioni di pazzi criminali”. Trai primi a nutrire dei dubbi sul "caso Tortora" vi è Leonardo Sciascia. Lo scrittore sicilano si è fatto persuaso dell’innocenza di Tortora denuncia come sul caso l'opinione pubblica sia divisa tra innocentisti e colpevolisti in base alle impressioni di simpatia e antipatia. Anche il giornalista Enzo Biagi si mostra dubbioso e decide di scrivere una lettera al Presidente della Repubblica Sandro Pertini chiedendogli di far luce sul “Caso Tortora”, sui legali che non possono leggere i verbali del loro assistito e sulla crocifissione di un uomo che non ha ancora subito un processo. Seguono gli  interventi pubblici di Giorgio Bocca, di Indro Montanelli e di Piero Angela per chiedere di fare chiarezza sulla vicenda e garantire al presentatore una giustizia equa e contro la perversione di sbattere il mostro in prima pagina. Certo si tratta di voci autorevoli ma ancora poche. Ma grazie a loro e con il passare dei mesi sono sempre di più quelli che iniziano a chiedersi: “E se non fosse colpevole?”.Quando esce dal carcere per affrontare il processo, l’appoggio più significativo  arriva da Marco Pannella, e il Partito Radicale decide di sostenere le sua battaglia civile candidando Tortora alle elezioni europee del 1984. 14 giugno Tortora viene eletto deputato al Parlamento europeo, insieme a Pannella e alla Bonino, con oltre mezzo milione di preferenze. Durante una udienza del processo il procuratore Diego Marmo definisceTortora: un “cinico mercante di morte, diventato deputato con i voti della Camorra”. La sentenza di prima o grado viene emessa il 17 settembre del 1985: le accuse dei pentiti hanno un’eco troppo grande e Tortora viene condannato a dieci anni di carcere. Per una parte dell’opinione pubblica italiana il presentatore ha preferito la via politica per usufruire del privilegio dell’immunità che lo status di parlamentare europeo  prevede. Il solo sospetto che qualcuno  possa pensare ad un suo ricorso ad un simile sotterfugio induce Tortora a prendere una decisione irremovibile. Tortora sorprende tutti, compreso il Partito Radicale e un incredulo Marco Pannella, decidendo di dimettersi dal ruolo di europarlamentare e rinuncia all’immunità, consegnandosi agli arresti domiciliari, da innocente. Con forza, orgoglio e coraggio ribadirà la sua innocenza con queste parole rivolte ai suoi giudici: “Io grido: sono innocente. Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi”. È il travaglio di un uomo che ha rinunciato alla libertà, mettendosi nelle mani della giustizia per un profondo senso etico e un rigore morale radicato nel profondo. Nel 1986 e nel 1987 la verità finalmente emerge: Enzo Tortora viene assolto con formula piena sia in secondo grado che in Cassazione. E adesso l’opinione pubblica, dopo anni di sciacallaggio ai danni di un uomo innocente, esorcizza la colpa collettiva con una domanda diversa: “Come è potuto succedere?”. Invece è accaduto. E’ successo che il nome sulla famosa agendina del camorrista Puca non era “Tortora”, bensì “Tortona”, e quel numero telefonico apparteneva non a Enzo tortora bensì ad una sartoria. Eppure nessuno investigatore, nessun giudice  si era preso la briga di prendere un telefono, alzare la cornetta e comporre il numero!Ma perché Tortora si è trovato in questa storia? Occorre ricostruire una storia di vendetta: quella del pregiudicato Giovanni Pandico. Questi aveva inviato alla redazione di “Portobello” una serie di centrin, da lui fatti in carcerei da vendere all’asta durante la trasmissione. Ma sfortunatamente quei centrini furono smarriti. Da qui inizia una serie di lettere e di intimidazioni del Pandico nei confronti del conduttore: tanrto che è lo stesso Tortora a chiedere scusa e offrire un compenso pecuniario. Scuse e risarcimento rifiutate con promessa di vendetta. Pandico, paranoico clinicamente dichiarato, imbastirà una serie di testimonianze che, assieme a quelle di altri pentiti sarà la base di partenza per accusare Tortora. Il giudice Michele Morello raccontò il suo lavoro d'indagine che avrebbe poi portato all'assoluzione del popolare conduttore televisivo: “Per capire bene come era andata la faccenda, ricostruimmo il processo in ordine cronologico: partimmo dalla prima dichiarazione fino all'ultima e ci rendemmo conto che queste dichiarazioni arrivavano in maniera un po' sospetta. In base a ciò che aveva detto quello di prima, si accodava poi la dichiarazione dell'altro, che stava assieme alla caserma di Napoli. Andammo a caccia di altri riscontri in Appello, facemmo circa un centinaio di accertamenti: di alcuni non trovammo riscontri, di altri trovammo addirittura riscontri a favore dell'imputato. Anche i giudici, del resto, soffrono di simpatie e antipatie... E Tortora, in aula, fece di tutto per dimostrarsi antipatico, ricusando i giudici napoletani perché non si fidava di loro”.Dunque, dove eravamo rimasti?”. Con questa frase il  20 febbraio del 1987 Enzo Tortora, da uomo libero, si riaffaccia sugli schermi della Rai tornando a condurre la sua trasmissione cult :”Portobello”. Il presentatore poi prosegue: “…Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche. Una me la consentirete: molta gente ha vissuto con me, ha sofferto con me questi terribili anni. Molta gente mi ha offerto quello che poteva, per esempio ha pregato per me, e io questo non lo dimenticherò mai. E questo "grazie" a questa cara, buona gente, dovete consentirmi di dirlo. L'ho detto, e un'altra cosa aggiungo: io sono qui, e lo sono anche, per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi. Sarò qui, resterò qui, anche per loro. Ed ora cominciamo, come facevamo esattamente una volta. Il suo pubblico gli tributa una lunghissima standing ovation  e Tortora a stento riesce trattenere le lacrime dalla commozione. È la fine di un incubo per un uomo che ha visto la propria vita distrutta. Un clamoroso caso di malagiustizia che si poteva evitare se chi aveva il potere di decidere sul destino di un uomo,  avesse esercitato con scrupolo e coscienza i compiti che la giustizia affida agli uomini che l’amministrano. Un anno dopo essere stato assolto, Enzo Tortora è morto a causa di un cancro ai polmoni. Gli anni di stress, di dolore e di privazioni hanno messo a dura prova la sua psiche e il suo corpo e non si è potuto godere la libertà difesa a un costo così alto. Dirà: “ E’ come se mi fosse esploso dentro una bomba atomica…” A sopravvivergli però è stato l’onore nell’affrontare a testa alta un’ingiustizia indegna di un Paese democratico e oggi il presentatore ha in tutta Italia strade e piazze che portano il suo nome. La vergogna è invece rimasta in seno a uno Stato che non ha saputo garantire a un cittadino i propri diritti, distruggendone la sua esistenza.


 In margine a questa  storia triste occorre ricordare i nomi dei Pubblici Ministeri che hanno messo Tortora alla gogna: Diego Marmo e Lucio Di Pietro. Non solo non hanno ricevuto alcuna conseguenza di tipo disciplinare, ma anzi hanno continuato la loro carriera con varie promozioni. Solo a distanza di anni, i due magistrati hanno inviato tramite interviste le scuse alla famiglia ma hanno continuato a sostenere e difendere la loro  condotta  durante l’indagine .

Quali gli effetti del “caso Tortora” sul  sistema giudiziario italiano? La vicenda ha portato infatti al referendum promosso dai Radicali sulla responsabilità civile dei magistrati e, nel 1988, alla legge Vassalli sul “Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”, facendo ricadere la responsabilità direttamente sullo Stato. Queste modifiche sono avvenute proprio perché il caso Tortora – definito da Giorgio Bocca come“Il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese” – ha coinvolto mediaticamente il paese per la notorietà del presentatore, ma i casi di malagiustizia che riguardano i comuni cittadini continuano a ripetersi ancora oggi. Come continua la battaglia sulla Giustizia Giusta dei Radicali.


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