venerdì 19 giugno 2020

LA GIUSTIZIA INGIUSTA


L’ARRESTO DI ENZO TORTORA: UN’INFAMIA E UN MONITO PER LA GIUSTIZIA ITALIANA.                           





Roma, Hotel Plaza 17 giugno del 1983. Sono circa le 4 del mattina quando alla porta della stanza dove riposa Enzo Tortora bussano alcuni  carabinieri del Reparto Operativo della Capitale. Lo svegliano, lo dichiarano in arresto e gli mettono le manette al polso. Il presentatore, ancora allibito e senza parole, viene invitato a seguire i militari in caserma. Tortora non riesce a comprendere  cosa stia accadendo. Prova a chiede ai carabinieri di cosa è accusato e riceve una risposta netta: " Lei è accusato di traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico". In pochi minuti la vita di un uomo viene stravolta ed inizia l’incubo e il calvario di una persona perbene. Proviamo a raccontarvi in breve quella storia che ha segnato uno dei periodi più brutti del sistema giudiziario italiano.

 di Michele Macelletti.


La notizia dell'arresto di Enzo Tortora viene accolta dall’opinione pubblica italiana come un fulmine a ciel sereno. L'uomo è uno dei volti più amati e popolari della Televisione italiana. E' il conduttore e creatore della seguitissima trasmissione della Rai Portobello,  seguita da ben 26 milioni di telespettatori. In quel momento Tortora, che aveva già presentato un Festival di Sanremo e condotto la seguitissima  La Domenica Sportiva, è il personaggio di spettacolo più noto e seguito dal pubblico televisivo. Le  immagini del suo arresto con le manette alle mani tra due carabinieri fanno scalpore. L’opinione pubblica ha sempre considerato Tortora un uomo perbene. Inizialmente i suoi collegi del mondo dello spettacolo, sembrano non volersi esprimere sulla clamorosa vicenda. In molti aspettano di conoscere i dettagli della incredibile storia che ha coinvolto il collega di lavoro o preferiscono pilatescamente non esprimersi pubblicamente. La voglia di saperne di piu’ sarà ben presto appagata dall’incessante lavoro di gossip svolto dai quotidiani, rotocalchi e dagli stessi telegiornali Rai, che con dovizia di particolari, ma spesso infamanti, ridisegnano agli occhi dell’'opinione pubblica italiana un'altro Enzo Tortora. Inoltre la quantità di nuovi pentiti e loro rivelazioni si susseguono ad ritmo sempre più incessante che per gli inquirenti non appare almeno sospetto. . al Il castello di accuse che appare sempre più schiacciante e impossibile da smontare. Eppure le cose che sembrano tali a volte non lo sono per niente.L’indagine che conduce all’arresto di Tortora avviene nel contesto di un blitz che coinvolge oltre 850 persone collegate alla Nuova Camorra Organizzata e viene presentata alla stampa come un colpo mortale inferto dalla Procura di Napoli alla criminalità partenopea. Il presentatore viene ammanettato in base alle accuse che gli vengono mosse da ben 19 pentiti. Non sono pochi. In questo nutrito nugolo di gentiluomini "dell'onorata società'",  si erge la figura di Pasquale Barra, detto ‘O animale”. Egli è un efferato omicida al soldo della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Il sopranome"'O animale" se lo conquista, per così dire, sul campo di lavoro allorchè uccide il boss della malavita milanese Francis Turatello. “O animale” accoltella Turatello nel carcere di Nuoro, e dopo averlo letteralmente sventrato, non contento del risultato,  completa l'opera  estraendone  gli organi interni e prendendo a morsi il cuore. Ecco dunque, in breve, il ritratto del principale accusatore a cui i magistrati napoletani dettero peso e credito. Si dirà, e furono in  tanti a crederlo, ma non era il solo pentito che faceva il nome di Tortora. Dunque, ci doveva pur essere qualcosa di vero. In effetti, oltre alle parole dei pluri pregiudicati, la prova materiale che inchioda l'accusato esiste.  Si tratta di un' agendina ritrovata nella casa di un noto camorrista napoletano, tal Giuseppe Puca, detto ‘o Giappone. Tra le pagine gli inquirenti trovano, scritto a penna e con grafia confusa, un numero di telefono e vicino  un nome: Tortora. Sembra una prova davvero schiacciante. Il problema è che sembra. Ma su questo punto torneremo in seguito. Fatto è,  che in base al rinvenimento di quel numero telefonico, il conduttore trascorrerà ben sette mesi e mezzo rinchiuso nel superaffollato carcere romano di Regina Coeli. Insieme a lui, in quella cella del 16 bis di pochi metri quadri, ci sono infatti altri sette detenuti. Nel frattempo, fuori da quella cella, si scatena lo sciacallaggio mediatico contro il mostro. Mamma Rai, a cui Enzo Tortora ha dedicato una vita, si distingue per essere  la  prima a trasmettere le immagini del conduttore in manette. Il montaggio di quel servizio giornalistico ha un sinistro sapore che rimanda a certa morbosità, quasi come di compiacimento per la fine di un uomo di successo. Questa sarà la cifra giornalistica comune ai dei tanti articoli che alimenteranno pagine e pagine di quotidiani e di riviste che beneficeranno di vendite record ad ogni nuovo scoop.  I rotocalchi di gossip pubblicano le foto della madre di Tortora mentre  prega per il figlio in chiesa. La poderosa macchina del fango entra in azione ed accende il ventilatore. I falsi scoop sono tanti: c’è chi assicura di averlo visto spacciare anche negli studi televisivi, chi parla di riciclaggio di denaro sporco, o addirittura di un’amicizia tra Tortora e quel Francis Turatello ucciso da Barra. A nulla serve la smentita della madre di Turatello, nell'immaginario collettivo Tortora  deve essere un “mostro”. Vi è persino chi sostiene di aver le prove che il presentatore sia stato affiliato alla Camorra attraverso il tradizionale rito del  taglio sul braccio. Ma a Tortora  nessuno mai chiese di mostrare il braccio, che di ferite ovviamente  non ne presentavaLa scoperta di come la stampa lo stava trattando fu per Tortora una sorpresa amarissima.  “Non mi parlare della Rai, della stampa, del giornalismo italiano. È merda pura. A parte pochissime eccezioni mi hanno crocifisso, linciato, sono iene. Sai, non esco a fare l’ora d’aria perché i tetti sono pieni di fotoreporters”. Così scrive in una lettera alla sua compagna Francesca Scopellitti. E in un’altra si sfoga: “Ho visto le foto di mia madre infamata (‘Gente’) persino nella cappella dove va a pregare per me. Sono ancora nel tunnel, sono diventato ‘il caso’, ‘il giallo’: tutto ciò che odio”.... Ed ancora sconfortato aggiunge: “Questo Paese non è più il mio. Il mio compito è uno: far sapere. E non gridare solo la mia innocenza: ma battermi perché queste inciviltà procedurali, questi processi che onorano, per paradosso, il fascismo, vengano a cessare. Perché un uomo sia rispettato, sentito, prima di essere ammanettato come un animale e gettato in carcere su delazioni di pazzi criminali”. Trai primi a nutrire dei dubbi sul "caso Tortora" vi è Leonardo Sciascia. Lo scrittore sicilano si è fatto persuaso dell’innocenza di Tortora denuncia come sul caso l'opinione pubblica sia divisa tra innocentisti e colpevolisti in base alle impressioni di simpatia e antipatia. Anche il giornalista Enzo Biagi si mostra dubbioso e decide di scrivere una lettera al Presidente della Repubblica Sandro Pertini chiedendogli di far luce sul “Caso Tortora”, sui legali che non possono leggere i verbali del loro assistito e sulla crocifissione di un uomo che non ha ancora subito un processo. Seguono gli  interventi pubblici di Giorgio Bocca, di Indro Montanelli e di Piero Angela per chiedere di fare chiarezza sulla vicenda e garantire al presentatore una giustizia equa e contro la perversione di sbattere il mostro in prima pagina. Certo si tratta di voci autorevoli ma ancora poche. Ma grazie a loro e con il passare dei mesi sono sempre di più quelli che iniziano a chiedersi: “E se non fosse colpevole?”.Quando esce dal carcere per affrontare il processo, l’appoggio più significativo  arriva da Marco Pannella, e il Partito Radicale decide di sostenere le sua battaglia civile candidando Tortora alle elezioni europee del 1984. 14 giugno Tortora viene eletto deputato al Parlamento europeo, insieme a Pannella e alla Bonino, con oltre mezzo milione di preferenze. Durante una udienza del processo il procuratore Diego Marmo definisceTortora: un “cinico mercante di morte, diventato deputato con i voti della Camorra”. La sentenza di prima o grado viene emessa il 17 settembre del 1985: le accuse dei pentiti hanno un’eco troppo grande e Tortora viene condannato a dieci anni di carcere. Per una parte dell’opinione pubblica italiana il presentatore ha preferito la via politica per usufruire del privilegio dell’immunità che lo status di parlamentare europeo  prevede. Il solo sospetto che qualcuno  possa pensare ad un suo ricorso ad un simile sotterfugio induce Tortora a prendere una decisione irremovibile. Tortora sorprende tutti, compreso il Partito Radicale e un incredulo Marco Pannella, decidendo di dimettersi dal ruolo di europarlamentare e rinuncia all’immunità, consegnandosi agli arresti domiciliari, da innocente. Con forza, orgoglio e coraggio ribadirà la sua innocenza con queste parole rivolte ai suoi giudici: “Io grido: sono innocente. Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi”. È il travaglio di un uomo che ha rinunciato alla libertà, mettendosi nelle mani della giustizia per un profondo senso etico e un rigore morale radicato nel profondo. Nel 1986 e nel 1987 la verità finalmente emerge: Enzo Tortora viene assolto con formula piena sia in secondo grado che in Cassazione. E adesso l’opinione pubblica, dopo anni di sciacallaggio ai danni di un uomo innocente, esorcizza la colpa collettiva con una domanda diversa: “Come è potuto succedere?”. Invece è accaduto. E’ successo che il nome sulla famosa agendina del camorrista Puca non era “Tortora”, bensì “Tortona”, e quel numero telefonico apparteneva non a Enzo tortora bensì ad una sartoria. Eppure nessuno investigatore, nessun giudice  si era preso la briga di prendere un telefono, alzare la cornetta e comporre il numero!Ma perché Tortora si è trovato in questa storia? Occorre ricostruire una storia di vendetta: quella del pregiudicato Giovanni Pandico. Questi aveva inviato alla redazione di “Portobello” una serie di centrin, da lui fatti in carcerei da vendere all’asta durante la trasmissione. Ma sfortunatamente quei centrini furono smarriti. Da qui inizia una serie di lettere e di intimidazioni del Pandico nei confronti del conduttore: tanrto che è lo stesso Tortora a chiedere scusa e offrire un compenso pecuniario. Scuse e risarcimento rifiutate con promessa di vendetta. Pandico, paranoico clinicamente dichiarato, imbastirà una serie di testimonianze che, assieme a quelle di altri pentiti sarà la base di partenza per accusare Tortora. Il giudice Michele Morello raccontò il suo lavoro d'indagine che avrebbe poi portato all'assoluzione del popolare conduttore televisivo: “Per capire bene come era andata la faccenda, ricostruimmo il processo in ordine cronologico: partimmo dalla prima dichiarazione fino all'ultima e ci rendemmo conto che queste dichiarazioni arrivavano in maniera un po' sospetta. In base a ciò che aveva detto quello di prima, si accodava poi la dichiarazione dell'altro, che stava assieme alla caserma di Napoli. Andammo a caccia di altri riscontri in Appello, facemmo circa un centinaio di accertamenti: di alcuni non trovammo riscontri, di altri trovammo addirittura riscontri a favore dell'imputato. Anche i giudici, del resto, soffrono di simpatie e antipatie... E Tortora, in aula, fece di tutto per dimostrarsi antipatico, ricusando i giudici napoletani perché non si fidava di loro”.Dunque, dove eravamo rimasti?”. Con questa frase il  20 febbraio del 1987 Enzo Tortora, da uomo libero, si riaffaccia sugli schermi della Rai tornando a condurre la sua trasmissione cult :”Portobello”. Il presentatore poi prosegue: “…Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche. Una me la consentirete: molta gente ha vissuto con me, ha sofferto con me questi terribili anni. Molta gente mi ha offerto quello che poteva, per esempio ha pregato per me, e io questo non lo dimenticherò mai. E questo "grazie" a questa cara, buona gente, dovete consentirmi di dirlo. L'ho detto, e un'altra cosa aggiungo: io sono qui, e lo sono anche, per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi. Sarò qui, resterò qui, anche per loro. Ed ora cominciamo, come facevamo esattamente una volta. Il suo pubblico gli tributa una lunghissima standing ovation  e Tortora a stento riesce trattenere le lacrime dalla commozione. È la fine di un incubo per un uomo che ha visto la propria vita distrutta. Un clamoroso caso di malagiustizia che si poteva evitare se chi aveva il potere di decidere sul destino di un uomo,  avesse esercitato con scrupolo e coscienza i compiti che la giustizia affida agli uomini che l’amministrano. Un anno dopo essere stato assolto, Enzo Tortora è morto a causa di un cancro ai polmoni. Gli anni di stress, di dolore e di privazioni hanno messo a dura prova la sua psiche e il suo corpo e non si è potuto godere la libertà difesa a un costo così alto. Dirà: “ E’ come se mi fosse esploso dentro una bomba atomica…” A sopravvivergli però è stato l’onore nell’affrontare a testa alta un’ingiustizia indegna di un Paese democratico e oggi il presentatore ha in tutta Italia strade e piazze che portano il suo nome. La vergogna è invece rimasta in seno a uno Stato che non ha saputo garantire a un cittadino i propri diritti, distruggendone la sua esistenza.


 In margine a questa  storia triste occorre ricordare i nomi dei Pubblici Ministeri che hanno messo Tortora alla gogna: Diego Marmo e Lucio Di Pietro. Non solo non hanno ricevuto alcuna conseguenza di tipo disciplinare, ma anzi hanno continuato la loro carriera con varie promozioni. Solo a distanza di anni, i due magistrati hanno inviato tramite interviste le scuse alla famiglia ma hanno continuato a sostenere e difendere la loro  condotta  durante l’indagine .

Quali gli effetti del “caso Tortora” sul  sistema giudiziario italiano? La vicenda ha portato infatti al referendum promosso dai Radicali sulla responsabilità civile dei magistrati e, nel 1988, alla legge Vassalli sul “Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”, facendo ricadere la responsabilità direttamente sullo Stato. Queste modifiche sono avvenute proprio perché il caso Tortora – definito da Giorgio Bocca come“Il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese” – ha coinvolto mediaticamente il paese per la notorietà del presentatore, ma i casi di malagiustizia che riguardano i comuni cittadini continuano a ripetersi ancora oggi. Come continua la battaglia sulla Giustizia Giusta dei Radicali.


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giovedì 14 maggio 2020

LA LIBERAZIONE DI SILVIA ROMANO E LE INUTILI SCENEGGIATE POLITICHE.




"Ho studiato abbastanza il terrorismo per sapere quanto sia efficiente nelle sue comunicazioni e nello sfruttare ogni occasione favorevole. Penso che, con ogni probabilità, Silvia Romano sia stata liberata non solo con riscatto, ma anche sotto ricatto”. L’analisi del generale Carlo Jean

In Italia tutto viene messo in politica. Il risultato sono pagliacciate. Da parte dei “cretini di turno” con le critiche alla conversione della ragazza e alla somma pagata, negata dal nostro ineffabile ministro degli Esteri, con la stessa “faccia di tolla” con cui smentiva di sapere che l’azienda di cui possiede al 50% avesse lavoratori in nero. Dal governo, con la miserrima – a parer mio “miserabile” – passerella fatta a Ciampino per ricevere Silvia Romano. Tanto di cappello al senso dell’onore e della dignità del ministro della difesa Guerini che ha rifiutato di partecipare a tale indegna sceneggiata ”borbonica”. Sapeva bene quanto male essa facesse al prestigio internazionale dell’Italia, ma se ne è chiaramente fregato…
Detto questo, sia i “soliti idioti” che se la prendono con la ragazza sia parte del governo hanno cercato di sfruttare l’occasione per guadagnare consenso. Non esiste differenza etica fra i due. Ma restano molti interrogativi. I liberatori di Silvia e certamente anche la ragazza non sono dei cretini. Erano sicuramente consapevoli dell’intenzione di riceverla in pompa magma. Ne hanno informato il governo. Per amore della “passerella” esso se ne è fregato e ha organizzato un comitato d’accoglienza, per celebrare la sua gloria. Le sue immagini avrebbero fatto il giro del mondo. Nei paesi civilizzati hanno a ragione suscitato disprezzo e sarcasmo. Sono poi state abilmente sfruttate dalla propaganda jihadista.
Allora, perché nostri governanti si sono prestati al gioco? Ho studiato abbastanza il terrorismo per sapere quanto sia efficiente nelle sue comunicazioni e nello sfruttare ogni occasione favorevole e quanto curi i particolari per evitare effetti boomerang. Penso che, con ogni probabilità, Silvia Romano sia stata liberata non solo con riscatto, ma anche sotto ricatto. Se non si fosse comportata come detto dai suoi carcerieri, essi avrebbero giustiziato qualche ostaggio, suo compagno di prigionia. Questo spiega anche perché i drones Usa schierati nel Corno d’Africa non abbiano bombardato per rappresaglia il villaggio in cui si trovava, tanto per dire allo Shabab di non “scherzare” troppo.
Se nei confronti della ragazza vanno usati il massimo rispetto e comprensione, essi non possono esserlo nei confronti dei “pagliacci”, che indegnamente ci rappresentano e che hanno scelto di esibirsi nella sceneggiata di Ciampino, noncuranti del danno che facevano a tutti noi.

14 MAGGIO 2020

martedì 12 maggio 2020

ONU, L'ITALIA VIOLA DIRITTI POLITICI E CIVILI DEI CITTADINI





Vittoria storica! Italia condannata per aver negato diritto al referendum

Il 29 novembre 2019 il Comitato dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha dichiarato l’Italia in violazione del Patto sui Diritti Civili e Politici e ha riscontrato una violazione dell’articolo 25, congiuntamente all’articolo 2, nei confronti di Mario Staderini e Michele De Lucia.


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( Mario Staderini e Michele DeLucia )

Più precisamente, il Comitato ha concluso che l’Italia ha violato il diritto di Staderini e De Lucia (e con loro di tutti i cittadini italiani) di partecipare alla vita politica e al governo del Paese -senza ostacoli irragionevoli- attraverso i referendum e le leggi di iniziativa popolare.
Il Patto sui Diritti Civili e Politici è il principale trattato in materia di diritti umani del sistema di protezione dei diritti Umani delle Nazioni Unite. L’Italia lo ha ratificato il 15 Settembre 1978. Il Comitato, composto da 18 esperti indipendenti rappresentati tutti gli Stati delle Nazioni Unite, è l’organismo predisposto ad assicurare che gli Stati contraenti del Patto lo rispettino.
Le conclusioni dall’unanimità del Comitato nel caso Staderini and DeLucia v. Italy (Comm. 2656/2015) dichiarano che in Italia l’esercizio effettivo del diritto di tutti i cittadini a promuovere referendum è irragionevolmente regolato e, di fatto, impedito da:
procedure legislative ingiustamente restrittive e irragionevoli;
sabotaggio da parte delle Istituzioni.
Le violazioni sono state determinate da:
la presenza (nella legge 352/70 che disciplina la procedura referendaria) di “restrizioni irragionevoli” al diritto dei cittadini di promuovere referendum. In particolare, la raccolta firme è impedita dalla previsione di un obbligo per i promotori di far autenticare le firme da un pubblico ufficiale presente al momento della sottoscrizione, senza però che la legge garantisca ai promotori la disponibilità per strada di quei pubblici ufficiali.
Il mancato intervento delle Istituzioni (Presidente Consiglio, Ministro dell’Interno, Ministro della giustizia, Presidente della Repubblica) a cui Staderini e De Lucia nel 2013, e Staderini in occasione di altro referendum del 2016, si erano rivolti per denunciare l’assenza di autenticatori, le inadempienze di molti Comuni (che non consentivano di firmare o non informavano) e l’assenza di pubblica informazione sulla campagna referendaria
Una volta determinate le Violazioni, il Comitato ha dato all’Italia 180 giorni (entro la fine di Maggio 2020) per:dare pieno ed effettivo rimedio alle vittime della violazione, incluso atto di scusa formale alle vittime della violazione.
tradurre e pubblicare la decisione del Comitato, “diffondendola il più ampiamente possibile”
prendere misure per evitare in futuro il ripetersi di violazioni simili, incluso modificare la legge che regola i referendum, assicurando che non via siano più restrizioni irragionevoli alla partecipazione dei cittadini alla vita politica.
La nuova legge, in particolare, dovrà: assicurare ai promotori dei referendum strumenti per autenticare le firme;
garantire che la raccolta firme si possa tenere negli spazi più frequentati dai cittadini (ad esempio piazze e centri commerciali privati);
assicurare che la popolazione sia informata delle raccolte referendarie e della possibilità di prenderne parte
Decisione storica
Questa è la prima volta che l’Italia viene condannata per aver violato l’articolo 25 del Patto, che codifica il diritto dei cittadini a partecipare alla vita politica attraverso strumenti di democrazia rappresentativa e diretta (ed è anche uno dei pochi casi al mondo)
la prima volta che il Comitato diritti umani dell’Onu si è espresso in materia di referendum (creando un precedente che farà scuola in tutti gli Stati dove si usano referendum e strumenti di democrazia diretta).
Il caso è stato portato di fronte al Comitato nel luglio 2015 dall’International Human Rights Center della Loyola Law School, Los Angeles, diretto dal Professor Cesare Romano, che ha seguito pure le memorie negli anni successivi.
FATTO
Il procedimento trae origine da quanto accadde nel 2013 in occasione dei sei referendum (in materia di: immigrazione, legalizzazione droghe, otto per mille, finanziamento dei partiti, divorzio) presentati da un gruppo di promotori, con Staderini e De Lucia, all’epoca rispettivamente Segretario e Tesoriere di Radicali italiani, primi firmatari.
La campagna di raccolta firme si caratterizzò per la difficoltà di reperire autenticatori e per una serie di violazioni da parte delle istituzioni, fermandosi a 200 mila firme raccolte sulle 500 mila necessarie. Il sabotaggio da parte delle istituzioni si realizzo attraverso sia azioni che omissioni:
Assenza di autenticatori disponibili senza che Governo prendesse provvedimenti
Istituzioni non hanno informato su cosa, come, dove e quando firmare
Malfunzionamento dei Comuni e violazione dei loro obblighi
Complessità vidimazione e certificazione dei moduli
Mancata risposta del Governo alle richieste di aiuto dei promotori dei referendum
Sin dall’inizio della campagna referendaria Staderini e De Lucia scrissero inutilmente al Governo Letta, al Presidente della Repubblica Napolitano e altre istituzioni per denunciare assenza di autenticatori e chiedere intervento. Dopo mesi di inerzia e iniziative nonviolente, il Ministero dell’Interno ammise il problema e adottò una circolare che però il Comitato Onu ha accertato essere stata nei fatti inutile.
Il 30 settembre furono depositate 200 mila firme in Cassazione denunciando gli ostacoli incontrati e le violazioni di legge, ma la Cassazione non ne tenne conto e boccio le firme raccolte.
Subito dopo Staderini e De Lucia, nell’ottobre 2013, scrissero anche a tutti i parlamentari, denunciando il fatto che i cittadini non potevano più esercitare il loro diritto di promuovere referendum, e allegarono una serie di modifiche legislative a costo zero che avrebbero reso semplice la raccolta firme. Nessuno fece nulla.
Nel 2016, in occasione del referendum sulla riforma costituzionale, Staderini presentò una richiesta di referendum costituzionale (per chiedere la votazione “per parti separate”), ma si ripeterono gli stessi ostacoli alla raccolta firme e a nulla valsero le richieste al Governo Renzi e altre istituzioni avanzate anche con i comitati referendari per il no alla riforma costituzionale e per la legge elettorale.
Staderini fece nuovo ricorso alla Cassazione, denunciando l’incostituzionalità delle legge di raccolta firme sui referendum, ma la Cassazione rigettò con argomentazioni oggi smentite dall’Onu.
Il 13 maggio del 2017, Staderini scrisse al Presidente della Repubblica e poi al Governo Gentiloni proprio per scongiurare la condanna dell’Onu e chiedendo un intervento verso Parlamento e Governo inerte. Iniziò così la campagna “duran adam al Quirinale”, le cui ragioni sono state confermate dalla storica decisione del Comitato diritti umani dell’Onu.
Aggiornamento
Dopo che a fine dicembre 2019 la decisione del Comitato diritti umani è stata notificata allo Stato italiano, il 5 febbraio 2020 Staderini, De Lucia e il professor Cesare Romano hanno scritto a Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio, Ministro dell’Interno e Ministro degli Esteri, per chiedere ottemperanza a decisione e mettersi a disposizione per il ripristino della legalità nazionale e internazionale.

Putin fa gli occhi dolci all’Italia e Salvini li chiude su Navalny

Putin fa gli occhi dolci all’Italia e Salvini li chiude su Navalny Putin si dichiara innamorato dell’Italia e la invita a collaborare...